Fontia e S. LuciaLa posizione geografica e la relativa floridezza di un’economia a base agro-silvo-pastorale furono fattori determinanti nella storia di Fontia. La posizione di confine coi territori Ortonovese e Sarzanese d’oltre valle rese, per secoli, precaria la sicurezza degli abitanti e impedì al borgo - che pure si organizzò presto in vicinanza - di prosperare tranquillo. I Fontiesi erano, in un certo modo, tributari del Castello di Moneta al quale, fra l’altro, pagavano forti tributi per assicurarsi il diritto d’asilo fra le sue mura in caso di guerra.
Dal XVI secolo in poi, quando i Cybo-Malaspina stabilirono una sicura pace con i Liguri, cominciò anche per Fontia una progressiva espansione in quanto si resero possibili accordi e scambi fruttuosi con l’oltrevalle. Così, dai 21 fuochi censiti nel 1602 (corrispondenti a circa 100 abitanti), la Vicinanza passò alle 268 anime del 1769, alle 310 del 1832 e, via via, andò sempre aumentando. Alla piena autonomia in quanto Vicinanza, il borgo volle presto affiancare anche quella in materia di culto ed ottenne che la sua chiesa fosse smembrata dalla Pieve di Ortonovo dalla quale era stata, per secoli, dipendente.
Durante il Risorgimento, quando il paese tornò ad essere zona di confine fra due regimi spesso in lotta, fu, in molte occasioni, luogo di transito, rifugio e complotto per patrioti. Realizzata l’unità d’Italia, Fontia fu ancora una volta considerata in funzione della sua posizione: la strada che nel 1885 la collegò col piano, segnando un momento determinante nel suo ulteriore sviluppo, fu tracciata, come s’è detto, per ragioni eminentemente militari.
SorgnanoIl primo ricordo di Sorgnano è contenuto in un documento risalente al 1141, codificato nel Codice Pelavicino, che ricorda un Johannes Ricio de Sorgnano. Dopo questo altri documenti si riferiscono sempre più spesso alla «Villa de Sorgnano» che, talvolta, è anche chiamata «Solegnanum»: forse il toponimo più antico attribuito al paese. Tipico nucleo a carattere agricolo-collinare, Sorgnano fu sempre noto per i suoi boschi e i suoi vigneti ed è appunto in virtù di frequenti contratti di compra-vendita riguardanti terreni, vigneti e boschi che esso trovò abbondanti citazioni negli antichi registri notarili.
Nell’anno 1218 la piccola Villa aveva già fama di «retto ed onorifico feudo»: come tale la qualificava certo Ugolino Armannino investendo «Bonagiunta e Gherardo figli germani del Defunto Bonfiglio... ed altri» del possesso «de tota tenuta et possessiones» da lui posseduti «in Villa de Sorgnano».
Non possedendo agri marmiferi questa Vicinanza fu sempre intenta e costretta a basare la propria economia sulla produzione agricolo-collinare: Linara, Canepara, Molino di Sorgnano ed altre località periferiche con nomi d’ispirazione agreste denunciano chiaramente la loro antica matrice. Una così stretta dipendenza dai prodotti della terra indusse spesso gli abitanti a rivendicare spazio e infrastrutture posti anche al di fuori della piccola valle che costituiva il confine naturale della Vicinanza; il Molino di Sorgnano, situato nel Canale di Gragnana, è un tipico esempio a tale proposito. Nonostante queste acquisizioni, che dato il preciso assetto giuridico della Valle del Carrione potevano, allora, considerarsi veri e propri incentivi straordinari, Sorgnano non conobbe mai uno sviluppo pari a quello che vissero le frazioni situate nella zona degli agri marmiferi e la sua popolazione diede vita ad un costante flusso migratorio verso la città.
GragnanaLe Tavole di Veleia (elenco inciso su bronzo di fondi agricoli assegnati, e loro assegnatari, redatto sotto l’Imperatore Traiano) annota un «Fundum Granianum» affidato a «Lucio Granio Proculo»: quel fondo, secondo attendibili deduzioni storiche, fu la matrice prima di Gragnana. Il canale in cui sorge il paese, il più ad ovest fra quelli confluenti nel Carrione, è sempre stato di grandissima importanza ai fini delle comunicazioni in quanto era ed è il solo varco abbastanza agevole, nel bacino a monte, verso la vicina Lunigiana e l’Oltreappennino.
I soli reperti preistorici affiorati nella valle del Carrione sono stati ritrovati nella zona della Gabellaccia, ossia nel versante gragnanino: essi, unitamente ad altri elementi naturali, lasciano supporre una presenza abbastanza organizzata dell’uomo preistorico nella zona. In un assetto economico-sociale in cui la pastorizia era la fonte principale di vita, i punti chiave ed obbligati, posti lungo gli itinerari della transumanza, assumevano importanza grandissima: Gragnana era uno di essi.
Quando, in epoche storiche più tarde, le mutate esigenze economico-sociali resero più frequenti le necessità di comunicazione, le comunità residenti in quei punti chiave di transito e sosta si organizzarono in modo da trarre il massimo vantaggio dalla posizione naturale occupata. Naturalmente ciò non fu sempre possibile poiché, nelle epoche più burrascose, una posizione strategica poteva tradursi più in danno che in vantaggio: è proprio ciò che accadde a Gragnana, il cui territorio durante la lunga lotta bizantino-longobarda, costituì un punto forte tra la zona occupata dai Longobardi e quella ancora in mano ai Bizantini.
Mutati i tempi e riattivati i traffici, però, la collocazione naturale tornò a produrre i suoi frutti. Nel 1078, anno a cui risale il suo primo ricordo storico, Gragnana era già un centro importante nella vita politico-sociale della zona giacché i suoi abitanti figuravano spesso come testimoni e garanti in atti stipulati fra il Vescovo di Luni ed i suoi contendenti. Esaminando attentamente i documenti raccolti nel Codice Pelavicino si nota proprio questo: che i Gragnanini non compaiono quasi mai in veste di contendenti ma, molto spesso, come testimoni o paceri in liti scoppiate fra gli abitanti d’oltre valle (Ortonovo, Nicola, Sarzana, etc.) e i valligiani Carraresi: il fatto lascia supporre che la comunità gragnanina fosse assai considerata e ciò anche in ragione della sua collocazione strategica.
Nel 1230 furono proprio «Quadraginta homines de Graniana» a porre in termini roventi il problema della «affrancatio rusticorum»: cioè della rivendicazione di autonomia totale dal Vescovo-Conte; a questa, poi, fu conseguente la nascita della Vicinanza organizzata secondo precise caratteristiche giuridiche ed il suo confluire spontaneo nel Comune.
Va notato che la Vicinanza di Gragnana, benché decentrata rispetto al cuore dei bacini marmiferi, legò subito la propria economia anche al marmo: pastorizia, coltura agricolo-collinare, attività varie connesse ad un discreto traffico furono comunque preminenti rispetto al marmo stesso. Nel 1490 quando i «Magistri Marmorum lapicidi et Artis quadrataria Totius Universitate Carrariæ» perfezionarono la loro Corporazione, Gragnana fu la sola, fra le Vicinanze non direttamente comprese nella zona marmifera, ad avere in essa i suoi affiliati: pochi, però, rispetto alle altre associate. Il paese continuava invece a trarre vantaggi e privilegi, e spesso anche qualche travaglio, dalla sua caratteristica di punto nodale: nel 1450, per questioni riguardanti il possesso di alcuni boschi, abitanti di Sarzana, Fosdinovo, Nicola ed Ameglia si scontrarono in sanguinosa lotta con Carraresi e Massesi proprio vicino a Gragnana, in località detta Segalara. Alla battaglia seguì una pace di cui i Gragnanini furono ancora una volta garanti e mediatori.
Con la fine del Medioevo la storia del paese entra un po’ in ombra. Tornò invece a vitalizzarsi quando Carrara passò sotto l’influenza Modenese e, per effetto di ciò, si ripropose la necessità di frequenti traffici con l’Oltreappennino. Particolarmente dopo il fallimento del tentativo che mirava a tracciare una via diretta tra Massa e Modena attraverso le Apuane e gli Appennini (la via Vandelli), la via per Gragnana s’impose come inevitabile. Nel 1831, quando Francesco IV visitò la nuova strada della Spolverina e sostò in paese, intuendone la funzione delicata, si volle dimostrare particolarmente magnanimo verso la comunità gragnanina: fra l’altro donò i fondi per il restauro della chiesa. Malgrado le attenzioni ducali i Gragnanini, nel Risorgimento, furono tra i più accesi seguaci di Mazzini; la memoria popolare ha tramandato notizia di esuli e perseguitati che, fuggendo dal nord, trovavano in Gragnana aiuto e rifugio: fra questi ci sarebbe stato Daniele Manin.
ToranoSi può raggiungere il paese per due vie: 1° imboccando la via Apuana al Ponte della Lugnola, continuando per il viale di Potrignano e seguitando la strada fiancheggiante il Cimitero Monumentale di Marcognano (ricco di pregevoli Cappelle; poco dopo l’ingresso sono il severo Monumento all’Alpino e la Tomba di Arturo Dazzi); 2° percorrendo la via Carriona fino a Vezzala e, quindi, imboccando la via di Torano che, nelle vicinanze del paese, diventa via Carriona.
La Vicinanza di Torano è citata per la prima volta in un documento dell’anno 1141; le lapidi romane rinvenute nell’area del paese nel secolo scorso e le sovrabbondanti citazioni che i bacini marmiferi ad essa circostanti trovarono nella letteratura latina, documentano, fin da allora, l’esistenza di un centro abitato nella piccola valle. Il toponimo stesso Torano si vuole di radice latina, derivato dai tori addetti al trasporto dei marmi ed alla riproduzione delle indispensabili colonie taurine. Lo stemma del paese, in antico, era infatti una testa di toro, ma in epoca altomedioevale a questa deve essere stata preferita la torre che compare negli unici stemmi pervenutici. Non è comunque da escludere l’origine preromana del toponimo; da Tur, che presso gli Etruschi significava, all’incirca, acqua corrente (Turrite sono appunto i rapidi fiumiciattoli della Garfagnana). Dal XII secolo in poi il paese viene sempre più spesso citato in documenti e contratti notarili che testimoniano una vivacità economica notevole ed una conseguente ricchezza la quale, a partire dal XVI secolo, ha lasciato un suo segno nella preziosità della chiesa parrocchiale. Da questa alacrità d’opera e di spirito trassero fama e fortuna famiglie come i Tenerali, i Guidi ed i Fabbricotti, le quali lasciarono segni validissimi nel mondo dell’arte o dell’industria marmifera.
MisegliaQuando comparve la prima notizia di Miseglia, nell’anno 1159, il paese aveva già alle spalle almeno mille anni di vita. Le tracce di lavorazione romana, gli arnesi, le sculture (prima fra tutte il bassorilievo dei Fanti Scritti) rinvenuti nelle cave circostanti il paese testimoniano che in epoca romana i giacimenti marmiferi di Calocara, Fantiscritti, Belgia erano intensamente sfruttati. Poiché gli addetti ai lavori dovevano risiedere in prossimità dei bacini, appare logico che l’ameno terrazzo posto ai piedi del Monte Croce dovette costituire luogo ideale per l’insediamento umano. Il Canonico Mussi, in un suo scritto ormai rarissimo, suppose addirittura che l’origine del paese fosse preromana limitandosi, però, ad affermarlo senza fornire alcuna giustificazione.
L’escavazione marmifera, iniziata dai romani, soverchiò le attività anzidette le quali tornarono, in seguito, a prevalere durante il basso Medioevo.
Oltreché dalla abbondanza e dalla natura degli agri marmiferi Miseglia era favorita anche da una estensione, relativamente grande, di terreni coltivabili circostanti il paese, e da una millenaria esperienza nel campo della pastorizia: anche nei tempi in cui il marmo appagava ogni necessità economica, i Misegliesi acquistavano boschi e pascoli un po’ dovunque nella valle e crearono, così, le premesse al relativo benessere in cui la comunità visse anche in tempi successivi, quando la crisi del marmo procurò anni difficili ad altre Vicinanze.
Dopo questi tempi di crisi, non appena le cave vennero riattivate quasi in pieno (XVIII secolo) il paese tornò al centro di una intensa attività produttiva e commerciale e molte delle famiglie locali che, proprio allora, creavano la loro fortuna, chiesero di essere iscritte «nella Vicinanza di Miseglia» per poter lavorare le sue cave: i Fabbricotti, di origine misegliese e già prosperi nei bacini marmiferi della propria Vicinanza, grazie a “mirati” matrimoni sconfinarono a Torano e quindi nei suoi ricchi agri, per poi dilagare.
Durante tutto il Risorgimento, ed anche nei primi decenni dopo l’Unità, la frazione fu teatro di tragici eventi. Purtroppo, altrettanto accadde nell’ultima guerra, quando le località circostanti l’abitato videro violenti scontri fra partigiani e tedeschi: metà delle case furono distrutte da incendi di rappresaglia provocati dagli occupanti stranieri. Simbolo della forza con cui Miseglia affrontò allora i sacrifici può considerarsi la Medaglia d’Argento Alessandro Bonatti, giovane partigiano misegliese trucidato dai nazisti.
CodenaFra tutti i paesi del Carrarese citati in quanto «Vicinanze» organizzate, Codena è il primo ad essere ricordato, nel 1278. I suoi abitanti, a quella data, erano proprietari di molti terreni coltivabili e di boschi che si estendevano fino al piano: la località Gotara, vicina alla città, è un estremo avanzo toponomastico di quei possedimenti che, probabilmente, presero corpo durante la dominazione dei Goti. Questi, infatti, nel periodo in cui stazionarono in loco, vitalizzarono molto l’agricoltura e suddivisero i terreni con criteri rigidi e precisi; criteri intorno ai quali la Storiografia moderna ha molto indagato: gli Imperatori Teodorico, Teodosio e Vitige promulgarono un vasto corpo di leggi in proposito.
Di fronte alla pressione dei Bizantini che, impadronitisi di Luni, tendevano verso Lucca, la nostra zona diventò un corridoio strategico ed i suoi abitanti, più che a combattere, furono incoraggiati a «trattare» coi nuovi conquistatori i quali, una volta imposta la propria organizzazione politica e sociale, premiarono coloro che non avevano opposto resistenza al loro affermarsi: fra costoro c’erano, forse, anche le gerarchie gotiche locali le quali salvarono parte dei loro possedimenti e si organizzarono, probabilmente, sull’area che dal piano di Gotara si stendeva fino a Codena (l’antica Gotona).
La ricchezza di terre e la sufficiente organizzazione del tessuto sociale fecero sì che il borgo potesse, prima degli altri, definirsi in Vicinanza. Malgrado ciò Codena si avviò ad un progressivo declino proprio a partire dagli anni in cui prese corpo definitivo il regime vicinale in tutta la valle: questo declino era causato principalmente dal fatto che il paese non possedeva agri marmiferi troppo estesi: carenza, questa, che costituiva uno svantaggio notevole nei confronti di altri borghi vicini che nel marmo trovavano fonte di ricchezza e benessere.
Nel 1490 nessun Codenese figurava nell’elenco dei Magistri Marmorum della valle di Carrara. Questa disparità di condizioni economiche, aggravatasi via via che i terreni siti in Gotara venivano venduti alla Vicinanza di Carrara, fu, tra l’altro, alla base sia delle rivalità che nacquero fra Codena ed i paesi vicini, sia delle inquietudini sociali che turbarono il paese in molti periodi.
Nel XVI secolo i boschi circostanti il paese erano addirittura ricordati come covi di taglieggiatori al punto che, nel Libro delle Riformagioni, veniva annotato: «Da un po’ di tempo in qua Carrara è diventata peggio che un (boscho) per gli (homicidi), diverse insolenze et enormi eccessi che vi si commettono». I fatti cui si riferiva l’annotazione erano avvenuti nelle vicinanze di Codena. Naturalmente questi rapporti «ufficiali» esageravano un tantino: ricondotte alle loro proporzioni esatte le turbolenze potevano spiegarsi con lo scontento di una comunità rapidamente impoverita o, quanto meno, costretta ad un tenore di vita molto inferiore rispetto a quello di Bedizzano, Colonnata, Miseglia e di altri paesi vicini.
BergiolaIl nome di Bergiola, forse, deriva dalla radice berg (che in tedesco significa montagna): questo fatto induce a legare in un rapporto ancora più stretto il paese alla montagna sulla cui sponda esso sorge, cioè alla Brugiana. Benché il borgo sia stato uno degli ultimi ad essere citato in quanto Vicinanza nei documenti storici, è probabile che la sua origine, in quanto organizzazione demografica, risalga a tempi remotissimi. L’area bergiolese, infatti, costituisce uno di quei punti in cui il territorio del Carrarese travalica, cioè sconfina oltre il crinale che delimiterebbe naturalmente la valle in cui esso è compreso. Se si considera che, come abbiamo accennato in altri capitoli, la valle di Carrara fu sede di pagus Ligure-Apuano, allora se ne può dedurre che il punto in cui sorge Bergiola dovesse assumere una importanza tutta particolare: esso era la chiave di una piccola linea di cerniera fra due comunità (quelle insediate nei territori oggi Carraresi e Massesi) che, probabilmente, ora si contesero ora condivisero pascoli e boschi circostanti. Bergiola Maggiore, il paese poco distante da Bergiola Foscalina ma in pieno territorio Massese, richiama anche nel nome una marcata comunanza di storia magari non priva di contrasti ma riconducibili, questi, a dati caratteriali abbastanza comuni: dati via via fattisi meno evidenti ma non del tutto cancellati. Circa la vita del Borgo fino al XV secolo poco si rileva dai documenti disponibili. Essendo un po’ ai margini della zona marmifera, la comunità bergiolese mantenne a lungo una economia agro-silvo-pastorale e, per conseguenza, fu per secoli incline a rimanere chiusa in se stessa ed autosufficiente. Nel 1490 l’Associazione dei Maestri del Marmo non elencava nessun esponente abitante o proveniente dalla Vicinanza. Da quella data, però, nel giro di pochi anni compaiono numerosi contratti notarili i cui stipulanti si definivano «de Berzola»: erano prevalentemente venditori di terreni ed anche «Marmorai» ossia non Maestri del marmo ma, comunque, operatori attivi e capaci: Nardi, Bertoni, Da Bolano sono i cognomi che ricorrono più spesso. Nei primi decenni del XVI secolo, a seguito di una violenta moria per peste, Bergiola rimase quasi spopolata: il censimento del 1602 calcolava a 7 fuochi la comunità bergiolese. Fu allora che nel borgo andarono ad abitare molte famiglie o molti singoli provenienti da altre Vicinanze o, spesso, da altre regioni: è documentata una discreta infiltrazione di Liguri (i Da Bolano furono, tra costoro, i più attivi). Si sa che per i forestieri era assai difficile ottenere l’ammissione alla comunità vicinale: in questa regola Bergiola ed Avenza costituirono, entro certi limiti, due eccezioni e di ciò si lamentò lo stesso Alberico Cybo.
Al censimento del 1769 la popolazione bergiolese ammontava a 72 abitanti. In alcuni dei censimenti successivi la piccola comunità venne censita in seno alla comunità di Bedizzano, come accadde nel 1851.
Purtroppo la pagina più nota della storia di Bergiola è tinta di colori atroci e risale agli anni, recenti, dell’occupazione tedesca: ecco come la racconta lo storico Luciano Casella nel suo libro «La Toscana nella guerra di liberazione» (La Nuova Europa Editrice, 1972 - pp. 368/9).
«Infine un’altra terribile spedizione di Reder sulle Apuane: la rappresaglia contro Bergiola Foscalina, in mezzo alle cave Carraresi.
L’occasione dell’intervento fu trovata nell’uccisione di un tedesco di guardia presso la Foce, lungo la strada che collega Massa con Carrara. Fu il frutto, questa uccisione, dell’iniziativa personale di un partigiano massese. Primo a trovarsi davanti a quel caduto fu un vigile del fuoco che tornava da Massa a Bergiola dove aveva dimora. Alla vista del tedesco ucciso fu preso dal terrore di farsi trovare nei paraggi e, abbandonato lo zaino che aveva sulle spalle, si dette alla fuga nei boschi.
I nazisti dall’indirizzo rilevato sullo zaino trassero subito le prove della colpa. Bergiola dovette quindi pagare.
Il 16 settembre, per ordine di Reder, reparti delle SS, unitamente a squadre delle Brigate Nere di Apuania, travolsero quel paese sulle pendici del Monte Brugiana compiendo il massacro di quanti rimasero loro tra le mani. 72 furono i morti. Non vi fu pietà per nessuno... Fu in questa occasione che venne trucidato insieme alla moglie e ai figli, coi quali era sfollato a Bergiola, anche un maresciallo della Guardia di Finanza in servizio a Carrara, Vincenzo Giudice. Dopo aver chiesto invano al comandante delle SS di essere fucilato in cambio di tutti quegli ostaggi innocenti, ottenne almeno, pur potendo usufruire del salvacondotto, di morire insieme ai suoi cari».
BedizzanoNelle più volte citate Tavole di Veleia (I secolo d.C.) si legge: FUNDUM BITUTIANUM A TITO BETUTIO FUSCO; l’iscrizione indica un possedimento (uno dei tanti elencati nelle tavole) ed il suo assegnatario: Betutio Fusco, che diede il nome al fondo stesso: Bitutianum, poi Bediolanum e, quindi, Bedizzano.
Oltre al vantaggio di essere vicino ai bacini marmiferi il poggio di Bedizzano aveva quello di essere circondato da boschi ed acque abbondanti.
Queste caratteristiche ambientali dovettero assicurare al borgo una discreta vitalità anche nei secoli bui susseguenti alla caduta dell’Impero Romano. La prima citazione del paese, comunque, affiora nel 1035 ed è contenuta in un documento in cui si parla di boschi: particolare che rivela la continuità di una economia silvo-pastorale.
Ma la ripresa del marmo, iniziata nel secolo seguente, cominciò a rivivificare l’altra antica fonte di ricchezza della quale il paese aveva goduto in epoca romana. Da un documento del 1430 si apprende che alcuni degli operatori più abili e noti nel settore marmifero erano «de Beditiano» e rispondevano ai nomi di «Pelliccia, Guido di Antonio de Marco, Agostino de Moro». Pochi anni dopo, nel 1490, l’elenco dei Maestri del Marmo conteneva ben 5 bedizzanesi.
Il non esclusivo legame con le cave giovò al paese anche da un punto di vista ambientale: il verde abbondante, la quiete, la freschezza del clima estivo, l’abbondanza di selve ed acque, indussero i Cybo Malaspina ed altre famiglie della nascente nobiltà locale a trascorrere in Bedizzano edificanti periodi di vacanze e, per conseguenza, a costruirvi dimore decorose: il palazzotto del Principe e gli edifici che circondano piazza Fratelli Bonuccelli ne sono un estremo avanzo. Nei secoli successivi la vita del paese si svolse tranquilla. Verso la fine del secolo scorso la frazione, e le sue vicinanze, furono spesso teatro di violente manifestazioni di inquietudine sociale (famosi i Fatti del Padre Eterno - 1888 - ed i conseguenti processi che ebbero eco in tutta Italia).
Durante l’ultima guerra Bedizzano ebbe quasi il 60 per cento delle case distrutte.
Oggi il paese è uno dei più vitali di quelli a monte della città.
Illustri bedizzanesi furono Angelo Pelliccia (1791-1883), medico, filosofo, patriota molto noto ed attivo nella vita culturale, scientifica e politica del suo tempo; e Giovanni Morelli (XVII secolo) che per conto di Alberico II condusse attenti studi geologici sulle montagne alle spalle di Massa, dove attivò le prime cave.
ColonnataNel 1810 nelle cave di Colonnata (in località Gioia) fu ritrovata una lapide risalente al I secolo a.C. Essa, come attesta Emanuele Repetti che ne fece una precisa descrizione, recava scolpiti i nomi degli addetti alle cave: i Villici, i Decuzioni, nonché il capo dei Villici: Hilar-us (cioè Ilarius). Questa lapide è la testimonianza più concreta che Colonnata fu attivo centro di produzione marmifera in epoca romana: il nome stesso del paese deriva - con tutta probabilità - dalla colonia di schiavi che si stabilì, forzatamente, in zona. La prima notizia storica del paese, comunque, risale all’anno 1111 ed è contenuta nel Codice Pelavicino. Come visse e come si organizzò il piccolo borgo nei secoli medioevali durante i quali il marmo non costituì più fonte di attività e ricchezza? Non è difficile immaginarlo: la posizione dell’abitato, sicura e lontana dalla insidiata pianura, favorì la sopravvivenza di un insediamento umano a scopo difensivo il quale, rotti i legami con l’opprimente gerarchia romana, si organizzò man mano secondo altri fini ed altre regole. L’allevamento dei maiali e la rinomata maestria nel lavorarne le carni (che come è noto furono introdotte in loco dai Longobardi), la coltivazione del castagno e di tipi di ortaggi collinari, l’ostinato terrazzamento di piane acquisibili a magre forme di agricoltura, la pastorizia, sono tutte attività che si svilupparono nel basso Medioevo e che troviamo a base dell’economia del borgo quando intorno ad esso ci vengono fornite le prime sufficienti notizie. Un altro dato, molto importante, scaturì da un evento occasionale verificatosi il 15 novembre 1720 quando un nubifragio catastrofico provocò vistosi smottamenti di terreni intorno al paese; nell’occasione emersero blocchetti di marmo lavorati a martello e disposti a muro: erano gli estremi avanzi delle robuste muraglie che nei secoli più inquieti del Medioevo avevano chiuso il piccolo abitato in un abbraccio sicuro.
A differenza di quanto avveniva in altre Vicinanze, dove il marmo creava condizioni favorevoli per molti, a Colonnata la diffusione del benessere tardava poiché le risorse restavano controllate da pochissime famiglie che, invece di favorire, come altrove, uno sviluppo del paese, cercavano addirittura di frenarlo per tema che nuove ambizioni turbassero gli equilibri ormai stabilitisi. Nel 1553 la Vicinanza contava solamente 16 fuochi e nel 1602, quando fu redatto un censimento organico, era salita a soli 24 (meno popolate erano solamente Noceto e Bergiola). Ufficialmente il borgo era però fra i più prestigiosi del Comune; tra l’altro era sede di una delle primissime Parrocchie autonome della valle (anno 1111).
Le turbolenze sociali che segnavano la vita di molte Vicinanze, specialmente nella vicina Codena, inducevano Alberico a creare condizioni diverse in Colonnata, borgo la cui importanza strategica stava particolarmente a cuore al Marchese; in questo intento egli, oltre ad emanare le predette disposizioni, fece ripetute pressioni sulle famiglie ricche perché, a loro volta, si adoperassero a non esasperare «le turbolenze già vive in altri siti e per la Grazia di Iddio non ancora accese in codesta a me cara Vicinanza di Colonnata».
I primi a rispondere all’appello furono i Cattani, i quali disposero che in certi giorni (pochi, per la verità) venissero distribuite in giuste proporzioni «fra i poveri sia terrieri che stranieri: uno staio di pane, bianco; un barile di olio buono; venticinque libbre di carne di castrato e vitello». Queste provvidenze sortirono il loro effetto pacificatore ed equilibratore, tant’è che il Marchese, deprecando fatti di sangue e banditismo divenuti frequenti in altri «malsiti», citava spesso ad esempio opposto, da «riguardarsi per emulazione», la Vicinanza di Colonnata.
Durante l’ultima guerra la frazione ha partecipato in pieno alla tragicità degli eventi ed ha avuto, fra l’altro, quasi il 50 per cento delle case bruciate. La lapide che, come vedremo, è posta sulla piazza, allude proprio a questo tragico evento: «Non il fuoco bruciò, figli di Colonnata, la vostra fede nella libertà...».
Noceto, Castelpoggio e CampocecinaRepetti diede notizia che nel 1816, mentre si tracciava la strada Castelpoggio-Tecchia, venne alla luce un’anfora piena di monete d’epoca romana: Repetti stesso, ed altri studiosi, supposero che il piccolo tesoro fosse un estremo avanzo del bottino strappato ai Romani dai Liguri-Apuani durante una delle molte battaglie combattute in loco. In effetti, che la zona circostante Castelpoggio potesse essere al centro di un discreto dinamismo demografico - organico od occasionale - fin dal II secolo a.C., lo confermano alcuni seri indizi: Marciaso, posto non troppo distante dal paese (anche se nella valle opposta) pare tragga il proprio nome dal Console Marco che nella zona patì una bruciante sconfitta; nei pressi della frazione, secondo le attendibili cronache del vecchio parroco di Pulica, furono rinvenute la tomba di un Centurione e diverse armi risalenti al II secolo a.C.; in «Campus Caesaris», cioè a Campocecina, nel secolo scorso venne alla luce un’ara dedicata a Nerone. D’altra parte i famosi formaggi di Luni, che toccarono perfino l’ispirazione dei poeti latini, dovevano provenire da allevamenti insediati in alti ed ameni pascoli: fatto, questo, che rendeva necessari luoghi d’alpeggio abitabili a quote abbastanza alte e Castelpoggio risponde perfettamente al requisito.
Nei secoli bui successivi alla caduta di Roma, durante i quali i boschi e le limitate risorse agricole e di pascolo furono più che mai base esclusiva di vita, la zona circostante il paese non fu certamente fra le più abbandonate; ma una sicura importanza essa la assunse nel periodo Bizantino-Longobardo quando, come suppone Formentini nel suo bel saggio Mikauria, il confine fra il territorio soggetto ai Bizantini (che miravano a difendere il porto di Luni e la via del Nord) e il territorio soggetto ai Longobardi passò proprio lungo il crinale occidentale della valle del Carrione, lungo la linea Mikauria (Nicola)-Moneta-Castelpoggio.
Finalmente, dal X secolo in poi, dalle supposizioni possiamo volgere ai fatti storicamente provati: la prima notizia documentata intorno al borgo si riferisce all’anno 997 quando, con un contratto rogato in data 30 marzo, il Vescovo Gottifredo cedeva a «Bonisone, qui professus est ex natione sua legem vivere longobardorum» un terreno (che come vedremo oltre era Volpiglione) situato fra «terra de fine Aventise» e «terra de Casa Poici». Da quell’anno le citazioni del piccolo centro si fanno sempre più frequenti e, via via, si precisa anche il toponimo definitivo, che passa attraverso queste deformazioni: Casa Poici in documenti compresi fra gli anni 1085 e 1252, Casaposi o Casposi in altri immediatamente successivi, Castrum Podium fino alla fine del Millecinquecento e, finalmente, Castelpoggio a partire dal XVII secolo.
Non appena la valle del Carrione iniziò il processo di autonomia dal Comitato vescovile e mirò ad organizzarsi in Comune di Valle libero, Castelpoggio si pose all’avanguardia del movimento: nel 1270 «Homines et Comune Casapozi» erano già una realtà politica consolidata: uomini liberi abitanti di un comune libero.
Per circa tre secoli il borgo, che era il più lontano dal centro della valle, rimase un po’ chiuso nella sua ordinata organizzazione vicinale, geloso dei propri beni che, spesso, difese con vere e proprie battaglie dalle ingerenze degli abitanti d’oltrevalle. Questi beni, pascoli e boschi, erano tutto per la comunità castelpoggina che non aveva parte nel possesso degli agri marmiferi; nel primo censimento delle maestranze addette al marmo, redatto nel 1490, non figura infatti alcun suo membro. Questa posizione marginale rispetto al cuore del Comune e questa emarginazione dalla più cospicua fonte di ricchezza locale, se diminuiva l’importanza economica di Castelpoggio non scalfiva quella ad esso derivante dall’essere posto in posizione strategicamente delicata: i Campofregoso di Sarzana e i Malaspina di Fosdinovo, proprio per ciò, tentarono più volte di impadronirsene e i primi a riuscirvi furono i Campofregoso che agli inizi del XV secolo tennero il borgo per un breve periodo.
Tornata libero comunello e passata sotto la signoria dei Malaspina, la Vicinanza conobbe, per almeno due secoli, uno sviluppo crescente. Il decollo si ebbe negli anni che vanno dal 1527 al 1531, quando un certo scompiglio nei rapporti tra le Vicinanze e fra i membri all’interno di queste (causa non secondaria una terribile peste che decimò la popolazione) permise a famiglie, fino ad allora emarginate, di intraprendere attività lucrose e di penetrare in settori prima proibiti: i Castelpoggini riuscirono quasi a monopolizzare un settore allora importante come quello dei Fabbri-Ferrai e, da questo, ad infiltrarsi presto in quello marmifero (il Rosso Antico di Castelpoggio fu un prodotto specifico che la Vicinanza immise poi sul mercato).
Una testimonianza molto eloquente relativa a questo periodo prospero l’abbiamo trovata nell’Archivio di Stato di Lucca (Acta Carraria, in Raccolta Speciale di S. Frediano): è un documento con il quale gli abitanti di Castelpoggio chiedono una nuova chiesa «Ad hoc un in ea Missam possent celebrare, maxime quia in alia ecclesiæ existente alla casa di Pellino, allo pacto non possint pro medietate permanere propter multiplicatione dicti populi».
La richiesta fu esaudita ed anche quella «metà della popolazione» che, come dice il documento, restava fuori dalla vecchia chiesetta, poté entrare in quella nuova, che fu consacrata nel 1584 e resa indipendente dalla Cura di Gragnana, cui apparteneva la precedente.
Nei secoli successivi la Vicinanza continuò a prosperare, ma senza raggiungere mai uno sviluppo demografico tale da farle perdere la caratteristica di paese meno abitato, dopo Noceto, fra quelli del Carrarese. In questi secoli il fatto più incidente nella vita della frazione fu la crescente importanza che venne ad assumere la via Lombarda: Castelpoggio era l’ultima, inevitabile tappa prima del passaggio alla valle opposta.
Fra i paesi del carrarese Castelpoggio è il più scelto e adatto come luogo di villeggiatura: situato in posizione amena e panoramica (alla sua destra corrono le Apuane con le prime alture boscose ed il massiccio roccioso del Sagro; alla sinistra si apre l’ampia visione del piano e del litorale da La Spezia alla Versilia), è circondato da boschi, pascoli e terreni che un terrazzamento ordinato rese coltivabili in epoche in cui il borgo aveva le sue fonti di vita nelle risorse agro-silvo-pastorali e nel discreto traffico che percorreva la via Lombarda. Il nucleo storico del paese è alla sinistra della strada ed era stretto intorno al castello, di cui rimangono estremi avanzi; il caseggiato posto alla destra della via è di sviluppo più tardo e, in buona parte, recente. Contrariamente a quanto è avvenuto in altri paesi, dove l’abitato si è progressivamente allungato lungo l’arteria stradale, a Castelpoggio ciò non si è verificato se non in misura minima, a causa della conformazione del terreno che non lo ha consentito, per cui la struttura del paese rimane abbastanza unita, senza sobborghi isolati. Solo di recente si è avuto qualche insediamento di piccole residenze stagionali.